Racconti del maestro

Resisti mentre gli altri mollano e alla fine vivrai quello che gli altri sognano…
Imparerò dall’albero come respirare.
Imparerò dall’albero come sopportare.
Imparerò dall’albero come invecchiare.
Imparerò dall’albero come ricordare.
Imparerò dall’albero come accettare la scure.
Chi lotta può perdere, chi non lotta ha già perso.
La pazienza è la dote del karateka. Nel Karate si progredisce molto lentamente, questo spinge molti allievi ad abbandonare prematuramente, ma chi persiste farà nuovi passi in avanti, questo è il Karate. “Nella lingua giapponese. “pazienza” 忍耐 ’nintai’ è nascondere la fatica, tollerare in silenzio le difficoltà, resistere all’ansia del tempo. Aspettare. Le cose di valore difficilmente si ottengono d’un tratto, per caso. Ci vuole pazienza.”
Come Nel Karate. I mediocri competono contro gli altri, i migliori competono contro se stessi. In fin dei conti essere un maestro di karate è come essere un padre naturale, o adottivo”, le cinture bianche che crescono nel Dojo, sono paragonate ai tuoi figli naturali, mentre quelle colorate e/o nere che nel corso del tempo si avvicinano a te, dopo avere fatto altri percorsi potrebbero essere paragonati a figli adottivi e la tua passione farà sì che sembrino tuoi, insegnando a loro la tua strada, la tua storia. Nel corso di questa avventura avremo dei figli bravi ed educati che impareranno e assimileranno i tuoi consigli, le tue tecniche; quelli meno bravi avranno sempre il tuo privilegio e saranno accompagnati nella via. Io penso che i migliori maestri siano quelli che ti indicano dove guardare ma non ti dicono cosa vedere. Questa infinita inesausta lotta contro me stesso. Non c’è vittoria, non c’è sconfitta, c’è solo lotta. Ciò che tratteniamo sparirà con noi, ma ciò che doneremo rimarrà nelle mani di tutti. Ecco chi è il Maestro, il maestro è quella strana persona che anche se rimanesse solo non se ne accorgerebbe. E per questo mi scuso con Colui che ha scelto altre esperienze, per aver fatto sì che dilapidasse 9 anni della sua vita per averlo fatto avvicinare al Karate e non essere riuscito a insegnargli il vero spirito del Budo. Ogni Sua sconfitta era una mia sconfitta e ogni giudizio ingiusto era una ferita che veniva inflitta anche a me, come ogni vittoria era una mia gioia. L’unico rammarico che mi resta è la frase finale che mi ha detto…”non ho più stimoli”, e con un click cancellare una storia.
Grazie comunque.
Rita sensei e Walter shihan
Karate no shugyou wa issho de aru (Il Karate Si Pratica Tutta La Vita)

Spostati progressivamente,

man mano che invecchi,

dal corpo allo spirito,

dal combattimento agonistico allo studio della forma,

dalla pratica essenzialmente fisica all’interiorizzazione dei principi.

 Perché la trasmissione di un kata è una scrittura nello spazio, che si cancella appena appare. Come un suono appartiene all’istante della sua emissione, il gesto, dal canto suo, è legato allo spazio che fende, e si chiude nel tempo. Per questo la scrittura del kata si cancella senza sosta, ma lascia ogni volta la sua impronta in corpi che vivono tempi sociali differenti. Ecco l’evoluzione del kata nel tempo. E allora un solo gesto può essere portatore di uno o più significati, poiché la scrittura di un kata è una serie di linee tracciate da un corpo che respira e si muove secondo molteplici cadenze, e queste linee sono ritmate dalla forza della velocità. La struttura dinamica di questa scrittura compone il kata. Nel karate, il ruolo della gestualità è particolarmente marcato, perfino primordiale. Per chi esegue un kata, lo sforzo consiste nell’incorporare questa scrittura nel suo stesso corpo. Nel momento in cui il kata emerge, lasciando cadere gli ornamenti, aprendosi nello spazio-tempo, si metamorfosa in una specie di pelle viva, in cui circola il sangue dell’esistenza. Da quel momento l’esecutore non è più soltanto trasmettitore o insegnante, diventa egli stesso origine del messaggio. Iniziandosi alla via del karate.

La tecnica ora è l’uomo.

 (KATA)

Kenji Tokitsu

 

Il karate è come l’acqua calda. Occorre riscaldarla costantemente o si raffredda.

Essendo dotato di grande forza, Yara era attratto per natura da attività che richiedevano scontro o contatto fisico. Tutto ciò che implicava forza o velocità suscitava il suo entusiasmo. Ma nel frattempo il suo maestro stava lentamente instillando in lui il valore dell’equilibrio e il principio dell’armonia.
Ogni giorno, durante gli esercizi di allenamento, il maestro sceglieva il momento giusto per dargli una leggere spinta ed egli inciampava da una parte o dall’altra. Nonostante tutti i suoi sforzi, non riusciva a mantenere l’equilibrio. «Tutte le cose trovano il loro principio nell’unità» diceva il maestro con tono dolce ogni volta che Yara incespicava stupidamente.
All’improvviso, un giorno egli capì che l’unità di cui parlava il suo sensei era quella della mente e del corpo, e che avrebbe ottenuto l’equilibrio che cercava soltanto dopo che le sue parti, fisica e spirituale, ne avessero raggiungo uno proprio.
Prima che se ne rendesse conto, erano passati vent’anni. Ormai per lui il tempo era relativo. Ricordava che il suo maestro diceva sempre: «Il tempo è importante per l’uomo che non ha pazienza. Se aspetta una persona che ama, dieci minuti sono molti. Se pratica per raggiungere la perfezione, cinquant’anni sono appena un inizio».

(Richard Kim, Guerrieri senza armi – Breve storia del karate di Okinawa, Ed Mediterranee, 2016.)

Nel karate, come in qualunque altro sport e nella vita in generale, c’è sempre qualcosa di meglio che puoi fare, anche quando non ci credi, anche quando sei convinto di essere arrivato al tuo massimo.
Esistono senz’altro limiti fisici e psicologici che in un certo periodo della nostra vita possono influenzare negativamente l’allenamento. Non siamo supereroi e non possiamo trasformarci in atleti da Olimpiade in un giorno, ma ci sono molte cose che possiamo fare per garantirci un miglioramento continuo e l’affinamento costante della tecnica.
Personalmente sto cercando di seguire alcune regole.

Spesso l’ostacolo è nella mente, nel modo in cui percepiamo noi stessi e gli obiettivi che possiamo raggiungere.

La prima regola è “non cercare scuse. È un difetto di cui soffrono in molti. Il ma è pronto in canna ogni volta che viene chiesto di fare di più, di meglio, di diverso. È una lotta continua con i però, se, vedremo, non sono pronto. Durante un allenamento magari siamo affaticati, i muscoli bruciano, il fiato manca, ma stiamo dando il tutto e per tutto e in fondo ci sentiamo anche soddisfatti di noi stessi, almeno fino a quando il maestro non chiede di meglio, e noi siamo lì – perplessi – a chiederci “ma come!?”.
La trappola è dietro l’angolo. Ha ragione il maestro, e lo sappiamo, ma mentiamo spudoratamente a noi stessi e abbiamo quella protesta, quella scusa, pronta da tirar fuori. È un meccanismo di difesa, un modo per giustificare le nostre mancanze. Ci diamo un’attenuante per mettere un freno alla fatica, perché andare oltre l’ostacolo può essere molto difficile.

La seconda regola è “non dare voce alle scuse, che sembra simile alla precedente, ma è molto diversa, perché quando le scuse sono dette ad alta voce, prendono vita. È inutile cercare di spiegare il perché dei nostri difetti, a meno che non si soffra veramente di qualche infortunio invalidante, tale per cui star zitti diventa non solo controproducente, ma anche pericoloso. Invece, se stiamo bene – ricordando che tutte le persone che fanno uno sport hanno sempre qualche dolore cronico con il quale convivere – è davvero superfluo inventarci, se pure in buona fede, fantomatici problemi fisici. Spesso l’ostacolo è nella mente, nel modo in cui percepiamo noi stessi e gli obiettivi che possiamo raggiungere.

A tal proposito, la terza regola è “darsi obiettivi semplici. Ci saranno probabilmente decine di aspetti tecnici che possiamo migliorare. Non ha senso credere di poterli affrontare tutti insieme nello stesso momento. È meglio iniziare con una o due cose, averle sempre a mente. E insistere. È un lavoro costante da fare su noi stessi, un modo per essere sempre pronti a modificare, rivedere, trasformare. Lentamente, lavorando su un difetto alla volta, acquisiremo maggiore controllo del nostro corpo e saremo pronti a lavorare su un aspetto nuovo.

Un maestro non è un essere perfetto, ma è una guida che ha già camminato sui nostri passi prima di noi.

La quarta regola è “riprovare le cose che facciamo peggio. Evitare un esercizio, una tecnica o un kata, perché sappiamo di non essere capaci o di non essere abbastanza bravi, non porterà dei benefici. L’unico modo per ottenere un miglioramento è insistere sulle cose in cui rendiamo meno. Talvolta può essere doloroso, ma è il solo modo per andare oltre l’ostacolo. Ci sono aspetti della nostra preparazione atletica e tecnica che non possono migliorare se non diamo a noi stessi la possibilità di provare e riprovare, pur sbagliando numerose volte, pur essendo imprecisi, inefficaci. La forza, per esempio, si allena caricando dei pesi. Si inizia con pesi bassi, ma prima o poi è necessario aumentare il carico per ottenere risultati apprezzabili. Sarà doloroso, l’acido lattico non darà tregua, ma infine il corpo si adatterà al nuovo peso e la nostra forza sarà maggiore. Se l’idea della fatica che dovremo sostenere ci farà rinunciare all’aumento del peso, allora avremo azzerato le opportunità di successo.

La quinta regola è “fidarsi del maestro, che è probabilmente il fulcro di ogni cosa. Se manca questa fiducia, vuol dire che qualcosa non funziona e che è il caso di rivedere alcune priorità o domandarsi se il cammino che abbiamo iniziato sia davvero giusto per noi. Un maestro non è un essere perfetto, ma è una guida che ha già camminato sui nostri passi prima di noi; non è a disposizione per i nostri capricci, ma è presente per mostrarci come migliorare. Non sarà un viaggio semplice, ma se esiste fiducia, darà solo soddisfazioni.

Le regole non finiscono qui, ma in fondo ognuno ha bisogno di concepire la pratica dell’arte marziale a suo modo. Le motivazioni che spingono una persona e studiare karate possono essere molto diverse tra loro. Talvolta gli aspetti spirituali sono preminenti, altre volte si studia per superare le paure, magari anche solo per stare in forma o per vincere una gara. Tutto è degno di merito.
Queste regole sono le mie e non sempre sono bravo a seguirle. La cosa importante è avere un metodo, dare un senso alle cose, altrimenti ogni gesto si svuota e il miglioramento diventa impossibile. 

Puoi sfruttare le tue crisi per creare una strategia, usare di te stesso il meglio di cui disponi in quel momento.

Bisogna essere molto onesti con se stessi, ascoltare quello che la nostra mente e il nostro corpo cercano di dirci, imprimere forza laddove necessario, ricordando che dove esiste una crisi c’è anche una crescita. Ed è forse la cosa più difficile, quando si attraversa una crisi, trovare lo stesso il modo di muoversi, vivere, convivere, amare, comprendere. In questi anni ho praticato il karate in molte situazioni diverse: euforia, tristezza, stress, noia, stanchezza. Tutto lo spettro delle emozioni. E ho scoperto che in ognuna di queste emozioni esiste una scintilla che serve alla pratica stessa.
Impari ad allenarti in ogni situazione, scopri che il tuo corpo risponde lo stesso, che la tua mente si adatta, che è capace di smistare i pensieri in un modo che sia favorevole.
Impari che se hai mal di schiena puoi praticare anche rimanendo in piedi, che se sei triste, il kime diventa uno sfogo, che l’euforia migliora il tempo di reazione. Puoi sfruttare le tue crisi per creare una strategia, usare di te stesso il meglio di cui disponi in quel momento. Alla fine, anche se con fatica, avrai migliorato qualcosa, avrai lavorato bene, non ti sarai risparmiato.
Combattere le scuse fa parte dell’allenamento. Deve diventare un esercizio, un modo di fare, uno ‘stile’, oserei dire. Se combattiamo le scuse possiamo lasciare spazio a tutto il resto, possiamo aprirci a nuove esperienze, dare a noi stessi la possibilità di imparare nuove cose, di correggere errori, di rivedere in meglio ciò che crediamo di saper fare.
Come recita uno dei principi di Gichin Funakoshi, il karate è come l’acqua calda. Occorre riscaldarla costantemente o si raffredda.

 

IL GUERRIERO

Ha fatto il Papuren, lo faccio anch’io forse il passaggio in accosciata mi premierà, farà di sicuro il Suparinpei e se facessi il Chatanyara no Kushanku, c’è il salto forse impressionerà. Tutto questo in una frazione di secondo e poi…

E’ normale avere paura. Tutti hanno paura di sbagliare. Spesso nascondiamo le nostre paure, perché forse ci sentiamo incapaci di affrontarle, ma in questo modo la paura lavora dall’interno, condizionando il nostro comportamento senza nemmeno esserne coscienti. La paura ci impone limiti che non ci appartengono. Salgo sul tatami eseguo il ritsurei e che faccio.. vado a dichiarare Suparinpei.

Ed eccola la paura..non faccio un kiai e tutta la mia prestazione va a farsi fottere e quel mikatsuki geri che pena. Ma che Guerriero sono allora?

Il mito del Guerriero non è destinato solo a chi si interessa di combattimento ma riguarda tutti gli esseri viventi, anche i karateka che affrontano una prova di kata.  Tutti sperimentano il conflitto tra la realtà e i propri desideri. Chi non ha spirito Guerriero, subisce il conflitto. Lo specchio di quello che mi è successo.

Il Guerriero lo affronta, perché senza Guerriero siamo in balia del fato, che per fortuna mi ha assistito ponendomi in una posizione da medaglia.

Ma questo non deve bastare. Lui il Guerriero non attende nella speranza che le cose accadano, le fa accadere. Certo può essere spaventoso pensare che tutto dipenda dalle nostre scelte. E’ molto più facile scaricare la responsabilità su qualcun altro. (Ma gli arbitri cosa hanno visto?). Se non ci sentiamo all’altezza, lamentarsi è sempre più facile che creare. Ma questa è la via del codardo.

Il vero Guerriero non ha paura di avere paura, la accetta, la affronta guardandola negli occhi e lanciandole la sfida.  Rifiutare di essere ostaggio  nelle mani della propria paura è l’azione di un Guerriero. Questo allora dovrà essere l’inizio di un nuovo lavoro. (alcune frasi sono state tratte dal libro “Per un cuore da guerriero” di Daniele Bolelli) che ringrazio.

Io sono un Karateka, potrei non essere il migliore, ma questo è ciò che cerco di essere, potrei non arrivare mai ma non smetterò mai di provare.

 

Walter shihan

Il Maestro

Il Maestro è quella strana figura che passa la vita a cercar di capire ma solo allo scopo di spiegare ai suoi allievi come a loro volta capire. Tutto sommato una vita dedicata agli altri non può che considerarsi, dal punto di vista umano, quasi una vita cristiana. Il prossimo viene prima di tutto. Gli allievi vengono pima di tutto. Ma il Maestro è quella strana figura che, nell’arco della vita, può venire scelto, essere contestato, infine abbandonato. Il Maestro è quella strana figura che continua a camminare senza voltarsi, senza curarsi di quanti lo seguono, senza curarsi di chi lo segue.

Il Maestro è quella strana figura che, anche se restasse solo, neppure se ne accorgerebbe.

Mi sono permesso di carpire dal bellissimo libro di F. Balzarro e E Credidio (On The Road), questa, io la chiamo “poesia” e dedicarla a tutti quelli che come me amano quello che fanno e poi hanno tante spalle “girate”.

 LA STRADA

La strada delle arti marziali certe volte assomiglia molto a quella della vita e secondo le fortune che si hanno, le opportunità che si presentano saranno innumerevoli, con una adeguata e accurata scelta si cercherà di prendere quella giusta, nel suo percorso i bagliori di altre viuzze saranno innumerevoli e attireranno le volubili attenzioni creando soltanto innocenti confusioni.

 LA CURIOSITA’

Colui che è senza desiderio può scoprire l’essenza, colui che è troppo desideroso scopre solo l’apparenza. La curiosità è una prerogativa dell’essere umano ma la presunzione e la voracità della ricerca porta alla piattezza delle cose e senza un istruttore vero o falso che sia, un maestro, un sensei/sifu’, o un cane guida se vogliamo chiamarlo così, la realtà metterà a nudo il problema e anche le roboanti dichiarazioni propagandistiche affonderanno nella melma dell’ovvietà.

RACCONTO

Un maestro zen vide uno scorpione annegare e decise di tirarlo fuori dall’acqua.
Quando lo fece, lo scorpione lo punse.
Per l’effetto del dolore, il maestro lasciò l’animale che di nuovo cadde nell’acqua in procinto di annegare.
Il maestro tentò di tirarlo fuori nuovamente e l’animale lo punse ancora.

Un giovane discepolo che era lì gli si avvicina e gli disse:
” mi scusi maestro, ma perché continuate??? Non capite che ogni volta che provate a tirarlo fuori dall’acqua vi punge? ”
Il maestro rispose:
” la natura dello scorpione è di pungere e questo non cambierà la mia che è di aiutare.”

Allora, il maestro riflette e con l’aiuto di una foglia, tirò fuori lo scorpione dell’acqua e gli salvò la vita, poi rivolgendosi al suo giovane discepolo, continuò:
” non cambiare la tua natura se qualcuno ti fa male, prendi solo delle precauzioni. Perché, gli uomini sono quasi sempre ingrati del beneficio che gli stai facendo. Ma questo non è un motivo per smettere di fare del bene, di abbandonare l’amore che vive in te.
Gli uni perseguono la felicità, gli altri lo creano.
Preoccupati più della tua coscienza che della tua reputazione.
Perché la tua coscienza è quello che sei, e la tua reputazione è ciò che gli altri pensano di te…
Quando la vita ti presenta mille ragioni per piangere, mostrale che hai mille ragioni per sorridere.”

LA REGOLA 1

 C’è un filo logico, fatto di semplici regole e la gente vi  inciampa!

Ma è anche vero che insegnare è più facile di educare, basta che il maestro conosca la via e ne mostri la direzione giusta, starà allora all’allievo percorrerla nella sua direzione; strada facendo bagliori di altre viuzze attireranno le volubili attenzioni creando ingannevoli e innocenti confusioni ed ecco che interverrà “educare” dal verbo latino “educere” o tirare fuori ciò che sta dentro, per questo le difficoltà del maestro, di fronte all’egoista e capricciosa arroganza dell’allievo, aumentano e dare risposte a domande incomprensibili e affermazioni impertinenti, oscurano  il percorso fatto assieme. Parafrasando una citazione di Miyamoto Musashi:  Il Maestro è l’ago e l’allievo è il filo. Tu devi praticare senza tregua!!  :cry:

In fin dei conti essere un maestro di karate è come essere un “padre naturale, o adottivo”,  le cinture bianche che crescono nel Dojo, sono paragonate ai tuoi figli naturali, mentre quelle colorate e/o nere che nel corso del tempo si avvicinano a te, dopo avere fatto altri percorsi potrebbero essere paragonati a figli adottivi  e la tua passione farà  sì che sembrino tuoi, insegnando a loro la tua strada, la tua storia. Nel corso di questa avventura avremo dei figli bravi ed educati che impareranno e assimileranno i tuoi consigli, le tue tecniche; quelli meno bravi avranno sempre il tuo privilegio e saranno accompagnati nella via. Ma vi saranno anche quelli che rifiuteranno il tuo credo  intraprendendo  altre strade, altri proveranno ma non contenti, perché avidi di sapere o di presunzione e se ne andranno. Io penso che i migliori maestri siano quelli che ti indicano dove guardare ma non ti dicono cosa vedere.

Lessi un giorno uno sfogo di una persona conosciuta, su un social network  allora memorizzai quelle parole ma purtroppo solo adesso ho capito quanto presto fa l’ego assassino mettere in disparte anche una lunga amicizia.

Perché insegno arti marziali? Perché ho una grande passione per una disciplina che mi ha cambiato la vita, mi ha migliorato sul piano mentale e fisico e mi ha regalato le più belle emozioni di tutta la mia vita. Cerco con tutti i mezzi di trasmettere questa passione ai miei allievi cercando di essere non solo un insegnate, ma anche un amico, un confidente, rendendomi disponibile in ogni modo (allenamenti extra, trasporti durante le gare ecc) per formare un gruppo che sia anche una sorta di famiglia per crescere e migliorare tutti assieme. Il risultato: allievi che avresti creduto che sarebbero stati al tuo fianco per sempre che spariscono, da un giorno all’altro senza una spiegazione, una parola, un messaggio. Gli allievi vanno, gli allievi vengono, in vent’anni di insegnamento dovrei esserci abituato…invece no… Ogni volta è un colpo durissimo, una mazzata che sinceramente non credo di meritare…che amarezza…”

Che presto fa la flebile memoria  dimenticare questo…  :cry:

Allora meglio camminare da soli che assieme a  viziati allievi e/o pseudo amici, inconsapevoli  della regola della vita?

Regola – norma che un gruppo sociale si dà per assicurare la sopravvivenza del gruppo e per perseguire i fini che lo stesso ritiene preminenti”.

 E per questo mi pento di quattro cose che ho fatto:

  • Aver perdonato più di una volta chi non lo meritava.
  • Essere stato troppo buono con chi non lo era con me.
  • Aver spesso trascurato me per gli altri.
  • Aver dato troppa importanza a chi non meritava nulla.

Ma di una cosa non mi rammarico, di avere insegnato a loro karate e mostrato la direzione da prendere e anche se avranno visto qualcos’altro, io avrò comunque, trasmesso il mio messaggio.

Chiudendo le porte del Dojo  e guardando indietro che vediamo ? Un anno fatto di chiari e scuri, più scuri che chiari e per questo cercheremo di pulirlo bene questo Dojo, in ogni suo angolo, anche se nel frattempo forse per qualche volontà soprannaturale  l’autopulizia si è fatta da sola.